sabato 23 febbraio 2008

La fabbrichetta del consenso

C'è un aspetto nella nascita della "rivista che vorrei" a cui guardo con molta attenzione e preoccupazione. È quello della relazione fra i contenuti, il lavoro di redazione e il sistema dei partiti e degli schieramenti, ovvero con quella che con una metonimia inflazionata chiamiamo "politica".
Nei giorni scorsi abbiamo accennato, sul blog e in riunione, al ruolo che dovrebbero avere coloro i quali hanno compiti e incarichi politico-amministrativi. Si è deciso di non porre alcun veto e mi pare giusto perchè altrimenti, di per sè, sarebbe stata solo censura preventiva.
Quello che - secondo me - invece deve restare fuori dalla rivista non è questo o quel nome. Quello che deve restare fuori è la logica che regge, per quel pochissimo che ne so, il sistema dei partiti. In quel microcosmo vige un criterio, quello del consenso, che è molto simile a quello che regge il mercato, le vendite. Rozzamante potrei dire che è "più bravo" un politico perchè raccoglie più consenso così come è "più bravo" un concessionario perchè vende più auto.
Un giornale come quello a cui stiamo lavorando, non di schieramento, non di partito, non commerciale, non vende auto e non raccoglie consenso. Per nessuno se non per se stesso. Mostra e dimostra quello che crede essere davvero interessante, come direbbe Chomsky «ha il compito di scoprire e di riferire la verità, non già di presentare il mondo come i potenti desiderano che venga percepito». Indipendentemente dal fatto che questo faccia vendere più auto o raccolga più consenso per un partito o per uno schieramento.
La logica "da schieramento" arriva a volere che se una notizia o un argomento, una narrazione non rende consenso, imbarazza, crea "attriti interni" non la si pubblica. Non vorrei, non voglio mai vedere nulla di simile nella rivista che vorrei.
Io so che questo è difficile da condividere e digerire per chi (prima o poi) si ritrova a fare i conti con il consenso, in una campagna elettorale o in una riunione di segreteria. Ma è bene che lo sappia.
Io so, perchè in venti anni di giornali e giornalini l'ho visto tante volte, che la ricerca del consenso fa brutti scherzi. Non ti fa dire pane al pane e vino al vino. Perchè quel pane e quel vino potrebbero urtare la sensibilità dei moderati, del ceto medio, dei centristi, dei credenti, dei compagni, dei pensionati, degli amici.
Chi ha a cuore più il consenso per uno schieramento che la genuinità del pane e del vino da offrire sul tavolo della pubblicazione, è meglio che cerchi spazio altrove.
La rivista che vorrei potrebbe portare troppi mal di pancia, troppi musi lunghi nelle segreterie e nelle sale riunioni.
La rivista che vorrei di queste precauzioni, attenzioni, sensibilità, equilibrismi, fintopluralismi se ne deve fregare.
Pane al pane e vivo al vino. Anche se per qualcuno sono indigesti.
Tanto per non andare lontano, non voglio più vedere certi tatticismi visti dentro "Monza la città" finchè ne ho fatto parte. Come non scrivere che il parroco di San Fruttuoso fa togliere i manifesti della festa dell'Unità, perchè dirlo potrebbe irritare qualche cattolico. Accontentare questo o quello, non scontentare quella o quelle. Perchè il rischio è quello di fare un giornale senza spina dorsale, facile a piegarsi al vento che tira.
Schiena dritta, l'umiltà di riconoscere i propri limiti, difetti ed errori quando ci sono, ma il coraggio delle proprie idee. Tutto il resto, equilibri ed equilibrismi e terrore da sondaggio restino fuori. Ci sono altri luoghi e altri momenti per tutto ciò.
La fabbrichetta del consenso ha già troppo spazio e tempo nella nostra vita. Io non ho nessuna voglia di offrirgliene neanche un altro po'.
Se a qualcuno non va bene, lavori al giornale che vorrebbe da un'altra parte. Oppure lo faccio io.

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